Associazione La Diana
Fontino del Ghetto

Fontino del Ghetto

Il Fontino del Ghetto, ubicato in via degli Archi, oggi si presenta come una nicchia con un rubinetto in bronzo ed è alimentato direttamente dal trabocco del Bottino Maestro di Fonte Gaia. Ruotando la valvola del rubinetto è ancora possibile far uscire l’acqua del bottino.

Nel 1572 il Governatore di Siena consigliava al Granduca di scegliere come luogo da adibire e trasformare in Ghetto il «ristretto di San Martino» perché facilmente adattabile e perché nell’area vi era una piazza, una fonte e la possibilità di «fare botteghe». Questa citata si trattava molto probabilmente della Fonte del Postribolo, della quale si ha testimonianza in una precedente relazione redatta da una spia fiorentina che aveva il compito di avvelenare le fonti senesi per prendere i cittadini per sete durante l’assedio della città del 1554/55.
Secondo quanto racconta Girolamo Macchi nelle sue Memorie, la Fonte del Ghetto fu costruita nel 1679 a spese degli ebrei e «per loro commodità». Macchi parla della Fonte del Ghetto come se fosse stata costruita ex novo e non come se si trattasse di un ampliamento e ristrutturazione di quella del Postribolo. Cita, infatti, le nuove decorazioni che abbellirono la fonte e il fatto che fino a quel momento gli israeliti erano costretti ad attingere acqua dalla vicina fonte Gaia. Queste le parole dell’erudito senese: «[nella fonte] ci fecero la figura di Mosè, quando batté la verga nel masso e scaturì l’acqua, e il trabocco della fonte l’introdussero che andasse alle prigioni delle Stinche, che per il passato non ci andava e tenevano un uomo a posta che portasse l’acqua a’ prigioni, e detti ebrei andavano alla fonte di Piazza per pigliare l’acqua per loro bisogni». Questa cronaca contrasterebbe con la relazione del Governatore di Siena del 1572 sul fatto che nell’area già esistesse una fonte che era una dei requisiti per l’insediamento della comunità israelita che la notte veniva chiusa all’interno dell’area e aveva necessità di approvvigionamento idrico autonomo. Ed una presistenza non contrasterebbe con il fatto che circa cento anni dopo la comunità israelita senese abbia fatto adornare il fontino con una scultura di Mosè. Questa statua, inizialmente attribuita a Jacopo della Quercia, si trovava all’interno della nicchia, protetta da un elegante parapetto di ferro battuto che la separava dalla strada e che impediva agli animali di avvicinarsi alla “prima acqua”. Sulla parete dove insiste la nicchia del fontino ai due lati erano presenti gli stemmi della Balzana e del Popolo. Di tutto questo, purtroppo, non c’è più traccia. In particolare, nel 1867 la statua di Mosè fu rimossa dalla stessa comunità ebraica, in quanto alcuni membri della stessa, afferenti agli ashkenaziti ortodossi, si appellarono al dettato della Torah (i primi libri della Bibbia ebraica) che vieta agli israeliti la raffigurazione del volto umano. Tolta dal suo luogo di origine, la statua di Mosè fu conservata nei magazzini della Sinagoga, dove fu rinvenuta dall’ingegner Marchetti. A questo punto venne nominata una commissione composta dallo scultore Tito Sarrocchi, dal Direttore dell’Archivio di Stato di Siena Luciano Banchi e dal Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Siena Luigi Mussini, alla quale fu richiesta una relazione circa la statua ritrovata. Questi esperti non ebbero dubbi nel constatare che il Mosè non era opera di Jacopo della Quercia, come ritenuto in un primo momento, ma di altro valevole scultore, tanto che si propose di ricollocarla nella fonte dopo averla sottoposta a un opportuno restauro. Cosa che non avvenne. Attualmente la statua si trova nella Sala delle Lupe del Palazzo Comunale. Sulle bozze ove si imposta l’arco della nicchia si legge “RESTAURATO” sul lato sinistro, e sul lato destro in numeri romani “MDCCCLXXIII” cioè 1873 anno in cui la fonte fu sottoposta a restauro. Mentre sulla chiave di volta della nicchia è impressa, sempre in numeri romani, M.DC.LXXIV la data cioè del 1674 data presumibilmente della ristrutturazione a carico della comunità israelita (altra incongruenza con la relazione del Macchi che parla del 1679).